martedì 18 luglio 2017

Due canti per il concorso fotografa San Calò e la Sagra

Chi nicchi e nacchi vive con San Calò e la Sagra. Due testi del libro, due canzoni in siciliano, faranno da struttura portante a videoclip che saranno proiettati nel corso della cerimonia di premiazione dei concorsi fotografici “Fotografa la Festa del Mandorlo in fiore” e “Fotografa San Calogero”. I due concorsi, giunti alla settima edizione, sono promossi e organizzati dal giornale online AgrigentoOggi, con la collaborazione di FederAlberghi e DIN24. Lo scopo dell'iniziativa è la promozione turistica del territorio, con i suoi eventi, le sue tradizioni, i suoi beni storici e monumentali, i suoi artisti. 

La cerimonia si svolgerà venerdì 21 luglio, con inizio alle ore 20, a Realmonte e avrà come suggestivo scenario il Resort Scala dei Turchi. Saranno consegnati i premi per la migliore fotografia a colori e la migliore fotografia in bianco e nero. La giuria sceglierà tra circa 300 scatti in concorso, di "altissima qualità", inviati da professionisti e amatori. 
La serata sarà arricchita dagli interventi musicali del chitarrista Giovanni Croce e dalla proiezione di due videoclip con la voce narrante di Raimondo Moncada, autore di Chi nicchi e nacchi, che reciterà U santu niuru ed È festa!, due canti dedicati alla Festa del Mandorlo in Fiore e a San Calogero.

Saranno presenti: Domenico Vecchio, direttore responsabile di Agrigentooggi.it; Alessandro Bufano, direttore del Resort Scala dei Turchi; Francesco Picarella Presidente di Federalberghi; il fotografo Massimo Palamenghi di Din 24; il fotografo Francesco Novara e l’artista Giada Attanasio, responsabili del coordinamento.

Condurrà la manifestazione Elettra Curto. 
L'ingresso è libero. 


sabato 8 luglio 2017

Inno a San Calò, tra miraculi e cucuruna



"Usantu niuru" è un canto di Raimondo Moncada. È un inno, un omaggio a San Calò, il santo nero miracoloso venerato ad Agrigento più del patrono San Giullà. 
È tra le opere, cunti e i canti, scritte in siciliano da Raimondo Moncada, raccolte nel libro "Chi nicchi e nacchi". 

La divertita composizione risale ai primissimi anni 2000. Riporta le emozioni, le suggestioni di momenti vissuti che vedono un popolo ringraziare il santo per le sue grazie e i suoi miracoli. Le manifestaIoni si concentrano nelle prime due domeniche di luglio quando il simulacro di San Calogero viene pure portato a spalla da decine di portatori per le vie anche impervie della città, sotto un sole rovente e con al seguito migliaia di devoti, molti dei quali a piedi scalzi. 

Il testo della canzone "U santu niuru" è recitato in questo video dallo stesso autore, con mezzi tecnologici artigianali e di fortuna, con foto scattate lo scorso anno. 

www.raimondomoncada.blogspot.it


www.nicchienacchi.blogspot.it 

mercoledì 28 giugno 2017

La Sicilia e la sua lingua: Chi nicchi e nacchi ad Agrigento

La Sicilia, la sua lingua, l’espressione artistica. Tra cunti e canti sarà presentato ad Agrigento il libro di Raimondo Moncada Chi nicchi e nacchi. L’appuntamento è per giovedì, 29 giugno 2017, alle ore 18, alle Fabbriche Chiaramontane, in piazza San Francesco (sotto la Via Atenea, a fianco della Chiesa dell’Immacolata).  

L’evento è promosso e organizzato dall’Ande di Agrigento, l’Associazione Nazionale Donne Elettrici. L’incontro sarà aperto dal presidente dell’Ande Carola De Paoli che parlerà del libro, Chi nicchi e nacchi, e del suo autore. Seguirà un intervento sulla lingua e gli autori siciliani di Enzo Alessi, operatore culturale, regista, attore.

Si parlerà del libro e si farà parlare il libro con la recitazione di alcuni cunti e canti. Alle Fabbriche Chiaramontane, daranno voce a Chi nicchi e nacchi  lo stesso autore, Raimondo Moncada e Lucia Alessi. Ospite della serata il cuntastorie Nenè Sciortino che canterà canzoni della tradizione popolare siciliana.   

Chi nicchi e nacchi raccoglie cunti e canti che Raimondo Moncada ha scritto nella sua lingua madre e recitati in pubbliche rappresentazioni con l’Accademia Teatrale di Sicilia. Il libro include anche brani, rivisitati, tratti dal ricco patrimonio popolare della Sicilia. La seconda edizione contiene un saggio sulla lingua siciliana di Tonina Rampello, presidente dell’Accademia Teatrale di Sicilia. 

lunedì 9 gennaio 2017

Il siciliano è una lingua che riscalda


Il siciliano è una lingua che riscalda. Quando la senti aumenta la temperatura del cuore. Hai un fremito, specialmente in ambienti dove si parla un’altra lingua. Succede, ad esempio, quando ti capita d’essere in terra straniera e sorseggiando un caffè dentro un bar senti una persona non parlare l’inglese, il francese, il tedesco o l’australiano, ma la tua lingua madre: il siciliano.
Ora succede anche in Sicilia, isola che sta diventando terra straniera per la lingua dei nostri padri.

Quanti lo parlano ancora? Quale siciliano viene parlato? Quali parole resistono? Quali parole sono state dimenticate?
Quante domande!
Le risposte sono roba da ricercatori, da università, da studiosi raffinati e appassionati (musica per le orecchie del docente e saggista palermitano Roberto Sottile).

Il siciliano, la lingua del cuore, dunque. La lingua con cui sono cresciuto, con cui ho nominato le cose del mondo, gli affetti familiari, le amicizie. La lingua che mi ha dato un’identità. Poi a scuola sono stato bacchettato e sono stato costretto ad abbandonarla e a parlare la mia seconda lingua, che poi è la principale lingua dell’Italia unita. Una nuova lingua che è diventata quella naturale delle generazioni contemporanee che, ironia della sorte, sono costrette a loro volta a studiare la mia lingua madre con progetti scolastici.

Alla mia lingua ho dedicato il libro “Chi nicchi e nacchi”, dando dignità a cunti e canti scritti negli anni proprio in siciliano. E con la mia lingua ogni tanto gioco perché se non si usano le parole si perdono nell’oblio. 

Un gioco l’ho lanciato su Facebook, scrivendo un post-icona dal titolo “Perché il siciliano è una lingua che riscalda” con dentro quattro parole siciliane: ‘ncupunatu (coperto di sana pianta, dalla testa ai piedi), cuttunina e cutra (coperte), mutannuna (mutande esagerate e di lana termica che ti arrivano alle caviglie non lasciando, d’inverno, un pelo scoperto). Il giorno prima, parlando delle bassissime temperature, avevo utilizzato il termine italianizzato di “agghiacciannu” per dire “aggigghiannu” ma anche “aggiarniannu pi poi muriri do frittu”. 

Al gioco hanno risposto immediatamente diversi amici, cantanti, artisti, professori di Lettere, professionisti, appassionati, di diversa provenienza: da Agrigento, a Licata, a Ribera, a Raffadali. I loro nomi sono sul mio profilo. Voglio ricordare Ezio Noto, Angela Mancuso, Angela Cacciatore, Enzo Giacobbe, Lillo Sarullo, Rosaria Vincenza Cavaleri, Rosaria Fisco, Giuseppe Marino, Angela Roberto (che ringrazio per il prezioso apporto e l’istruttivo divertimento).

Ognuno a tirare fuori parole su parole dal cilindro della memoria collettiva, da questo patrimonio linguistico che non dobbiamo smarrire. E allora sono venuti fuori termini ma anche espressioni che un tempo usavamo spesso, che un tempo sentivamo dai nostri nonni e poi dai nostri genitori e poi… non più. Solo parole da museo o da raccolta accademica, alcune vicinissime all’italico idioma altre più radicate e ai più giovani incomprensibili:

-         A scuzzetta cu u giummu ‘ntesta
-         U birriuni
-         U pipituni
-         U scialli di lana
-         A manta di lana
-         A mantella fatta chi i busi
-         I pidunetta
-         I scarpi di lana pi la notti
-         U tanginu
-         A borsa di l’acqua cavuda
-         A pignata ca vuddi
-         U partò
-         A bunaca di vellutu o di fustagnu
-         mittitivi lu scappularu ncapu la bunaca!
-         ‘Ndruscialu megghiu l’addevu
-         U rosoliu
-        

Qualcuno, con ludico trasporto, ha anche tirato fuori parole e espressioni come: “a frevi”, “a russania”, “u focu di Sant’Antoniu”, “a Seicentu chi vuddi”, “a cannila addumata”. Io avrei insistito, ma non l’ho fatto, con “timpuluna” e “marruggi” perché anche questi riscaldano. 

Ma quello che ci dava più calore – come giustamente mi viene suggerito – erano “li vrazza di la nanna”. 


Raimondo Moncada
www.raimondomoncada.blogspot.it