“Se non
si corre ai ripari, la lingua siciliana si avvia, come tutte le umane cose,
verso un progressivo ed inevitabile declino”. È quanto scrive lo scrittore, editorialista,
umorista siciliano, Lino Buscemi in un pezzo uscito sul giornale La Repubblica
dal titolo “Il Cupolone di Palermo che compare negli antichi detti”.
Un nuovo grido d’allarme per salvare il salvabile, per non fare estinguere una
lingua e non un semplice dialetto.
“Le più
recenti statistiche – scrive Lino Buscemi – si incaricano di
"certificare" che la percentuale degli abitanti dell'Isola che sempre
meno parla alla maniera di Antonio Veneziano, Micio Tempio, Giovanni Meli o di
Vincenzo Mortillaro, aumenta a dismisura”.
Però,
aggiunge Buscemi, “capita ogni tanto di ascoltare ‘detti’, in un siciliano
davvero unico, che chiamano in causa anche luoghi o personaggi un tempo
esistenti e di cui oggi non c'è più traccia o ricordo. Chi si ostina,
coraggiosamente, a proferire parole in siciliano (con le inevitabili
inflessioni delle parlate delle provincie di provenienza) arricchite di
riferimenti arcaici ed oscuri? Quasi esclusivamente sparuti anziani in età
avanzata”.
E Lino
Buscemi riporta un colorito detto pronunciato in un bar di Palermo da un
vecchietto: “Avia
ragiuni me nannu: sta matina ci l'aiu quantu u cupuluni ri San Giulianu”.
A quale
cupola si riferisce?
Per avere
la risposta, questo è il LINK del “Cupolone di Palermo” di Lino
Buscemi
* Lino Buscemi è autore
di Sconosciuti e dimenticati e con
Antonio Di Stefano Signor
giudice, mi sento tra l'anguria e il martello (Navarra Editore)
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