Il siciliano è una
lingua che riscalda. Quando la senti aumenta la temperatura del cuore. Hai un
fremito, specialmente in ambienti dove si parla un’altra lingua. Succede, ad
esempio, quando ti capita d’essere in terra straniera e sorseggiando un caffè
dentro un bar senti una persona non parlare l’inglese, il francese, il tedesco
o l’australiano, ma la tua lingua madre: il siciliano.
Ora succede anche in
Sicilia, isola che sta diventando terra straniera per la lingua dei nostri
padri.
Quanti lo parlano
ancora? Quale siciliano viene parlato? Quali parole resistono? Quali parole
sono state dimenticate?
Quante domande!
Le risposte sono roba
da ricercatori, da università, da studiosi raffinati e appassionati (musica per
le orecchie del docente e saggista palermitano Roberto Sottile).
Il siciliano, la
lingua del cuore, dunque. La lingua con cui sono cresciuto, con cui ho nominato
le cose del mondo, gli affetti familiari, le amicizie. La lingua che mi ha dato
un’identità. Poi a scuola sono stato bacchettato e sono stato costretto ad
abbandonarla e a parlare la mia seconda lingua, che poi è la principale lingua
dell’Italia unita. Una nuova lingua che è diventata quella naturale delle generazioni
contemporanee che, ironia della sorte, sono costrette a loro volta a studiare
la mia lingua madre con progetti scolastici.
Alla mia lingua ho
dedicato il libro “Chi nicchi e nacchi”, dando dignità a cunti e canti scritti negli
anni proprio in siciliano. E con la mia lingua ogni tanto gioco perché se non
si usano le parole si perdono nell’oblio.
Un gioco l’ho lanciato su Facebook,
scrivendo un post-icona dal titolo “Perché il siciliano è una lingua che riscalda”
con dentro quattro parole siciliane: ‘ncupunatu (coperto di sana pianta, dalla
testa ai piedi), cuttunina e cutra (coperte), mutannuna (mutande esagerate e di
lana termica che ti arrivano alle caviglie non lasciando, d’inverno, un pelo
scoperto). Il giorno prima, parlando delle bassissime temperature, avevo
utilizzato il termine italianizzato di “agghiacciannu” per dire “aggigghiannu”
ma anche “aggiarniannu pi poi muriri do frittu”.
Al gioco hanno
risposto immediatamente diversi amici, cantanti, artisti, professori di
Lettere, professionisti, appassionati, di diversa provenienza: da Agrigento, a
Licata, a Ribera, a Raffadali. I loro nomi sono sul mio profilo. Voglio ricordare
Ezio Noto, Angela Mancuso, Angela Cacciatore, Enzo Giacobbe, Lillo Sarullo,
Rosaria Vincenza Cavaleri, Rosaria Fisco, Giuseppe Marino, Angela Roberto (che
ringrazio per il prezioso apporto e l’istruttivo divertimento).
Ognuno a tirare fuori
parole su parole dal cilindro della memoria collettiva, da questo patrimonio
linguistico che non dobbiamo smarrire. E allora sono venuti fuori termini ma
anche espressioni che un tempo usavamo spesso, che un tempo sentivamo dai
nostri nonni e poi dai nostri genitori e poi… non più. Solo parole da museo o
da raccolta accademica, alcune vicinissime all’italico idioma altre più
radicate e ai più giovani incomprensibili:
-
A scuzzetta cu u giummu ‘ntesta
-
U birriuni
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U pipituni
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U scialli di lana
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A manta di lana
-
A mantella fatta chi i busi
-
I pidunetta
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I scarpi di lana pi la notti
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U tanginu
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A borsa di l’acqua cavuda
-
A pignata ca vuddi
-
U partò
-
A bunaca di vellutu o di fustagnu
-
mittitivi
lu scappularu ncapu la bunaca!
-
‘Ndruscialu megghiu l’addevu
-
U rosoliu
-
…
Qualcuno, con ludico
trasporto, ha anche tirato fuori parole e espressioni come: “a frevi”, “a
russania”, “u focu di Sant’Antoniu”, “a Seicentu chi vuddi”, “a cannila
addumata”. Io avrei insistito, ma non l’ho fatto, con “timpuluna” e “marruggi”
perché anche questi riscaldano.
Ma quello che ci dava più calore – come
giustamente mi viene suggerito – erano “li vrazza di la nanna”.
Raimondo Moncada
www.raimondomoncada.blogspot.it