lunedì 9 gennaio 2017

Il siciliano è una lingua che riscalda


Il siciliano è una lingua che riscalda. Quando la senti aumenta la temperatura del cuore. Hai un fremito, specialmente in ambienti dove si parla un’altra lingua. Succede, ad esempio, quando ti capita d’essere in terra straniera e sorseggiando un caffè dentro un bar senti una persona non parlare l’inglese, il francese, il tedesco o l’australiano, ma la tua lingua madre: il siciliano.
Ora succede anche in Sicilia, isola che sta diventando terra straniera per la lingua dei nostri padri.

Quanti lo parlano ancora? Quale siciliano viene parlato? Quali parole resistono? Quali parole sono state dimenticate?
Quante domande!
Le risposte sono roba da ricercatori, da università, da studiosi raffinati e appassionati (musica per le orecchie del docente e saggista palermitano Roberto Sottile).

Il siciliano, la lingua del cuore, dunque. La lingua con cui sono cresciuto, con cui ho nominato le cose del mondo, gli affetti familiari, le amicizie. La lingua che mi ha dato un’identità. Poi a scuola sono stato bacchettato e sono stato costretto ad abbandonarla e a parlare la mia seconda lingua, che poi è la principale lingua dell’Italia unita. Una nuova lingua che è diventata quella naturale delle generazioni contemporanee che, ironia della sorte, sono costrette a loro volta a studiare la mia lingua madre con progetti scolastici.

Alla mia lingua ho dedicato il libro “Chi nicchi e nacchi”, dando dignità a cunti e canti scritti negli anni proprio in siciliano. E con la mia lingua ogni tanto gioco perché se non si usano le parole si perdono nell’oblio. 

Un gioco l’ho lanciato su Facebook, scrivendo un post-icona dal titolo “Perché il siciliano è una lingua che riscalda” con dentro quattro parole siciliane: ‘ncupunatu (coperto di sana pianta, dalla testa ai piedi), cuttunina e cutra (coperte), mutannuna (mutande esagerate e di lana termica che ti arrivano alle caviglie non lasciando, d’inverno, un pelo scoperto). Il giorno prima, parlando delle bassissime temperature, avevo utilizzato il termine italianizzato di “agghiacciannu” per dire “aggigghiannu” ma anche “aggiarniannu pi poi muriri do frittu”. 

Al gioco hanno risposto immediatamente diversi amici, cantanti, artisti, professori di Lettere, professionisti, appassionati, di diversa provenienza: da Agrigento, a Licata, a Ribera, a Raffadali. I loro nomi sono sul mio profilo. Voglio ricordare Ezio Noto, Angela Mancuso, Angela Cacciatore, Enzo Giacobbe, Lillo Sarullo, Rosaria Vincenza Cavaleri, Rosaria Fisco, Giuseppe Marino, Angela Roberto (che ringrazio per il prezioso apporto e l’istruttivo divertimento).

Ognuno a tirare fuori parole su parole dal cilindro della memoria collettiva, da questo patrimonio linguistico che non dobbiamo smarrire. E allora sono venuti fuori termini ma anche espressioni che un tempo usavamo spesso, che un tempo sentivamo dai nostri nonni e poi dai nostri genitori e poi… non più. Solo parole da museo o da raccolta accademica, alcune vicinissime all’italico idioma altre più radicate e ai più giovani incomprensibili:

-         A scuzzetta cu u giummu ‘ntesta
-         U birriuni
-         U pipituni
-         U scialli di lana
-         A manta di lana
-         A mantella fatta chi i busi
-         I pidunetta
-         I scarpi di lana pi la notti
-         U tanginu
-         A borsa di l’acqua cavuda
-         A pignata ca vuddi
-         U partò
-         A bunaca di vellutu o di fustagnu
-         mittitivi lu scappularu ncapu la bunaca!
-         ‘Ndruscialu megghiu l’addevu
-         U rosoliu
-        

Qualcuno, con ludico trasporto, ha anche tirato fuori parole e espressioni come: “a frevi”, “a russania”, “u focu di Sant’Antoniu”, “a Seicentu chi vuddi”, “a cannila addumata”. Io avrei insistito, ma non l’ho fatto, con “timpuluna” e “marruggi” perché anche questi riscaldano. 

Ma quello che ci dava più calore – come giustamente mi viene suggerito – erano “li vrazza di la nanna”. 


Raimondo Moncada
www.raimondomoncada.blogspot.it